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ANTONIO PRETE, Il cielo nascosto. Grammatica dell’interiorità, Torino, Bollati Boringhieri, 2016, pp. 274, € 16,00.

Scorre un impeto decostruttivo nelle vene del libro di Antonio Prete, a cominciare dal sottotitolo velatamente ossimorico, giacché se l’interiorità è indefinibile – al pari della forza immaginativa da cui trae nutrimento – l’intento di fornirne una rappresentazione sistematica (cioè una ‘grammatica’) potrebbe apparire rischioso. Ma si tratta di un azzardo necessario e mai come adesso cogente, anche a fronte del trionfo dell’esteriore e di un visibile omologanti, che nel ridurre l’alterità alimentano una supina acquiescenza. «Certo», sottolinea Prete nell’introduzione al volume, «non si può fare storia di quel che attiene all’universo del sentire» (p. 9), ma è tuttavia possibile individuare dei punti fermi in questa mappa dai contorni sfumati che, a conti fatti, struttura il libro in dieci stazioni tematiche ben definite: costellazioni, a loro volta, nel cielo interiore. Un cielo che si rispecchia in una geografia ben precisa e che muove le fila dalla massima greca «conosci te stesso», da intendersi quale scaturigine del lògos poetico: conoscenza del proprio limite ma anche esperienza del limite, cui è derivativo l’esempio leopardiano dell’Infinito e della siepe che «accende la luce nel teatro dell’interiorità» (p. 23).
Ma spingersi dentro sé stessi vuol dire anche richiamare i pensieri in un unico punto, contravvenendo perciò al ‘patto’ con i cinque sensi: da qui le riflessioni intorno al raccoglimento, che da Agostino (giacché nell’uomo interiore abita la verità), si snodano per Baudelaire, Montaigne, Machiavelli e Kafka, delineando il ricco ipotesto sotteso alla tramatura del libro. Vieppiù, nell’indugiare sul deserto e la stanza, Prete continua a mantenere costante il pendolarismo tra geografia fattiva e luoghi dell’anima, e se «nel deserto il confine si ritrae nel trasognato» (p. 46); la stanza diviene epitome del raccoglimento, specula privilegiata che «permette lo sguardo verso il cielo […], ma anche verso quell’altrove che è il regno dell’immaginazione» (p. 55). Un altrove ch’è dischiuso dal sentimento amoroso, tema portante del terzo capitolo: giacché esperienza d’amore e conoscenza di sé «si interrogano l’un l’altro, si sovrappongono, si congiungono » (p. 71), accompagnandosi a un desiderio di prossimità – già rilevabile nel Canto delle creature di San Francesco d’Assisi – che si farà, con Dante e la Canzone seconda del Convivio, brama d’intendimento; senza contare i riferimenti a Barthes – circa l’amore come espropriazione del Sé – e Leopardi Il Pensiero dominante. Il quarto capitolo, dedicato alle «cosmografie interiori», si aderge invece a perno dell’intero volume, istituendo da subito quella dicotomia oppositiva tra i due cieli dell’esistenza, ovverosia «un cielo abitato da stelle e pianeti e un cielo abitato da pensieri e sentimenti» (p. 107): per quanto speculari, i due versanti non solo si riflettono l’uno nell’altro, ma altresì generano un repertorio d’immagini cui la lingua poetica attinge in maniera costante. Si genera una rispondenza delle cose e tra le cose, ragion per cui guardare dentro di sé è come scrutare un cielo, dove «i ricordi sono come comete in transito, i pensieri sono corpi celesti in movimento, i sentimenti sono pianeti con il loro ritmo, con le loro ellissi » (p. 114). Via via, dunque, l’interiorità si configura quale luogo e spazio vissuto dal soggetto, esperito sostanzialmente in transito: un punto d’osservazione dislocato, mediante cui l’entós ánthropos apprende un’arte del vivere, della cura di sé, ma parimenti «un’ars moriendi, dell’estremo confronto» (p. 124). E se, nel capitolo d’apertura, la massima «conosci te stesso» invitava a prendere coscienza del limite, il chiamare in causa la malattia e il momento del trapasso origina, in questo cielo nascosto, una meditazione sul confine (da Lucrezio a Seneca, passando per le allegorie medievali e il leopardiano Dialogo della Moda e della Morte). Ma, proprio perché parlavamo di spazio, ecco che questo territorio si fa percorribile mediante l’atto del camminare, cui è dedicato il sesto capitolo, dove i riferimenti, tra gli altri, a Petrarca (l’ascesa al Mont Ventoux) e Thoreau (il Walking), rivelano la sua carica sensoriale e immaginativa – il suo essere trait d’union tra il movimento del corpo e quello dei pensieri.
Dalla dilatazione, al restringimento: la parola, nel capitolo dedicato al soliloquio, si fa silenziosa e scevra dal paradigma dialogico, venendo meno sua funzione di missiva linguistica. Eppure, la ridondanza del lògos aumenta quell’eccedenza di senso altrimenti inaccessibile sul piano della phonè: da qui l’esempio di Molly Bloom, il cui monologo «è anche un viaggio intorno al proprio corpo, intorno al desiderio che è respiro del corpo» (p. 182). L’interiorità, allora, che dischiude inedite modalità percettive, dove il tempo vissuto è oltremodo connesso a un «altro tempo […] che mai ci è appartenuto e che tuttavia in qualche modo respira in noi» (p. 193); o dove i limiti del visibile si fanno, specie nell’autoritratto, imago fittiva di un Io mai rappresentabile e che, tuttavia, diviene schiavo della propria immagine, come Narciso e il suo «volto d’ombra» (p. 241), protagonista del capitolo conclusivo. Eppure, per quanto il riflesso sia pietrificante e talvolta letale, la riflessione resta comunque una «necessaria palestra» (p. 257), perché «salva l’io nel tumulto dell’accadere» (ibid.), indicando la rotta in una costellazione senza cielo.

(Diego Salvadori)

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