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PASCAL GABELLONE, Qualche linea blu, qualche traccia di cenere, traduzione di Margherita Orsino, nota critica di Ugo Fracassa, Roma, Ensemble, 2017, pp. 99, € 12,00

Nell’incertezza di ogni ritorno. Sono queste le parole che Ugo Fracassa cita dal vecchio sodale di Pascal Gabellone, Gianni Celati, per dare l’ultima immagine del suo libro postumo, Qualche linea di blu, qualche traccia di cenere, tradotto da Margherita Orsino e incluso nella collana di poesia «Alter», per i tipi di Ensemble.
Il lento cammino di questa poesia sillabata è uno stillicidio di attimi. Già a partire dal titolo, la dimensione spirituale è rapportata alla più stretta immanenza di povere cose quotidiane: poche righe scritte a penna (queste ultime poesie che leggiamo?), il contenuto del posacenere che una folata di vento distribuisce sul bianco del foglio. Ricusando la magniloquenza del simbolo, Gabellone mostra a sé la prospettiva degli ultimi istanti, lucidamente conscio che la fine, nascosta dietro il paesaggio del suo ultimo soggiorno terrestre, non può essere lontana, illusione ottica colma di timore e tremore, fra grazia e rimpianto, figlia di una disperazione senza singhiozzi («Venez. / Prenez lieu / dans mon sang. // Soyaez l ’orfèvre / de ma mort», p. 24).
Nonostante la spontaneità del suo dettato, quasi ungarettiano per la cadenza di un ritmo lento e diviso, Gabellone conferisce una forma stratificata alle sue ultime righe, organizzandole in cinque paragrafi basati su lievi ma sostanziali cambiamenti di prospettiva (Qualche linea di blu, qualche traccia di cenere; Sparsi al di là dei giorni; Siete dei miei morti?; Terra povera, unica terra; Filamenti di mondo) più un doppio Esergo e un Epilogo a due voci su cui bisognerà tornare. Come nota Fracassa nei suoi appunti di lettura inclusi in coda, lo spessore letterario e citazionista di queste parole soffiate da impercettibili labbra si salda perfettamente ad una levità spirituale che scompone la luce nei colori primari, fra cui campeggia il blu, tinta della natura e della semplicità, gravida, per tradizione culturale, di sovrasensi che la legano all’intelligenza della morte – illuminante, a mio parere, il richiamo alla schermata monocroma dell’ultimo film di Derek Jarman –: «et pour fuir, cherchons quelque chose / de bleu qui nous mêle à la nuit: qui / sache nous oublier…» (p. 10).
Fra le cinque sezioni del libro, il movimento è quello impercettibile di una vita ridotta a osservazione e attesa. Come nelle figurazioni naturalistiche di Alexander Hollan (ad es. “Le Grand chêne dansant” dans l ’espace, in copertina) la fissità mutevole dell’oggetto di natura richiama all’auscultazione dei sommovimenti dell’anima, un’anima che crepita come il fuoco in cucina, che vorrebbe già bucare il tetto e sollevarsi, brace che cova sotto le ceneri di sé («Que / du feu aux cendres / s’entende la plainte / heureuse / et inaccomplie», p. 20). Gabellone ha condotto un esercizio di ascesi artistica inspirato non ai grandi paesaggi romantici, ma a quanto possiamo scorgere, vivente, nel nostro giardino o nelle campagne intorno casa («Exactitude de la neige / ou absence. / Aux marges du froid: / l’arbre noir», p. 14). I sensi tesi a cogliere il respiro della vita segnano il desiderio poetico di uscita dall’infinita catena degli intertesti – che non poteva essere oscura al professore universitario – per chiudere il cerchio della scrittura e tentare definitivamente la parola come vita, nonostante si tratti di una vita a perdere («Tout s’expie / aux alentours de / l’oeuvre. / Et ce qui est perdu / l’est infiniment», p. 26).
È così che in Filamenti di mondo l’attesa diventa spasmodica («Une lumière / sans répit / au sommet / du rêve», p. 64). L’autore si è spinto fin dove lo sguardo può arrivare senza tuttavia risolvere l’enigma di un’ora sconosciuta, la soglia non è più quella della morte quanto quella dell’umana comprensione. Eppure non è questa la fine. Un dialogo «situabile nella terra di nessuno tra Leopardi e Landolfi» (p. 97), aleggiante in tutta la raccolta, prende forma nelle ultimissime pagine e prova un congedo da tutto, anche dalle parole e dalla cenere, per lasciare posto solo alla neve “d’un gris chargé” che cala lentamente e attutisce i pensieri. A parlare con brevi frasi sono ora l’autore, colui il quale, riconoscibilmente, ha accennato il suo io nella raccolta, e una figura volutamente indefinita, spirito del tempo o genio personale che sia. Se il primo è ancora legato all’idea di poesia come gioia terrena, il secondo lo dissuade con forza, lo tratta come un illuso, gli fa capire che solo le cose hanno ragione. Ciò che non conosciamo, sembra comunicare l’autore nel suo ultimo ragionamento leggibile, è l’unico orizzonte degno della nostra vita, il resto sembra di rado più prezioso del silenzio.

(Fabrizio Miliucci)

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